sabato 10 novembre 2007

La china fatale

C'è un articolo dei Avvenire di ieri che mi ha reso estremamnete triste.
E' tremendo pensare che le nostre radici possano essere accantonate per non "infastidire qualcuno".
Quel qualcuno penso anche che non penserebbe mai di chiedere ciò che qualcun'altro impone in nome della sensibilità altrui.
Tra l'altro musulmani ed altre religioni non usano altri calendari?
Leggete e valutate voi

SPERPERO DELLA NOSTRA IDENTITÀ
CHINA FATALE.
NESSUNO CI CHIEDE DI ABBRACCIARLA
da Avvenire del 9 novembre 2007

Dagli Stati Uniti viene la proposta di togliere dalla datazione l’acronimo d.C. (perché il riferimento a Cristo offen­derebbe chi è musulmano, o di altra reli­gione) e sostituirlo con e.c. (era comune).
In Gran Bretagna una scuola avrebbe in­dotto gli alunni e le loro famiglie a prati­care per un giorno costumi musulmani: uso del chador per le ragazze, separazio­ne tra ragazze e ragazzi, tra uomini e don­ne siano genitori o insegnanti. Però, a­lunni, docenti e genitori, erano per il 90 per cento di religione cristiana.
Questi gli ultimi segni di una china fata­le che l’Occidente sta vivendo in tema di multiculturalità.
I precedenti più prossimi sono noti. In I­talia, un alto tribunale ha perdonato due genitori per le percosse inflitte alla figlio­la Fatima perché la tradizione da cui pro­vengono le giustificherebbe.
In Germa­nia, un giudice ha diminuito drastica­mente la pena a chi aveva commesso vio­lenza carnale perché la sua tradizione sar­da legittimerebbe in qualche modo la pre­varicazione sulla donna. A differenza che in passato, né a Roma né a Berlino si è trovato un giudice vero, cioè equo e u­mano.Io credo si debba riflettere su un elemen­to importante.
Siamo di fronte ad una chi­na fatale che nessuno ci chiede di per­correre, a una condanna che ci infliggia­mo da soli, come presi da una bramosia di anonimato che oscura tante cose, per­si in un orizzonte di autopunizione nel quale ci rinchiudiamo.
La nostra storia, le grandi svolte spirituali che ci hanno fatti come siamo, che hanno cambiato il mondo e il genere umano, tutto ciò può essere nascosto, messo nell’angolo, per i­gnavia o per paure inesistenti.
In questo modo, facciamo tutto il con­trario di ciò che la multiculturalità po­trebbe essere, cioè molteplicità e ric­chezza, incontro di identità e confronto di valori.
Il messaggio di Gesù è grande e decisivo per i cristiani, ma è rispettato, a­scoltato in tutto il mondo, come abbiamo potuto vedere negli incontri che Giovan­ni Paolo II e Benedetto XVI hanno avuto e hanno con i leader religiosi del pianeta.
A loro volta, i cristiani rispettano i valori e le esperienze spirituali di altre religioni come un patrimonio che può portar frut­ti e benefici.
Dall’incontro tra le religioni può iniziare un cammino di cui non conosciamo le tappe e gli esiti, ma che interessa l’uma­nità intera.
Ma nascondere, svilire, la sto­ria e il ruolo di una religione o dell’altra, incontrarsi facendo finta che non abbia­mo radici, tutto ciò non porta al dialogo interreligioso, porta a dialoghi finti, pone i presupposti di nuovi conflitti.Concepire il dialogo chiedendo a ragaz­ze non musulmane di indossare il cha­dor è avvilente, toglie autenticità al rap­porto interpersonale, impedisce una ve­ra conoscenza reciproca.
Così come le­gittimare pratiche violente con le tradi­zioni culturali vuol dire tornare indietro di secoli, fare del diritto uno strumento di legittimazione del più forte, anziché di af­finamento del costume sociale.
La mul­ticulturalità è stravolta, finisce con l’of­fendere quei principi religiosi che gli uomini avvertono e sentono nella propria coscienza.
Di fronte a tanti fatti preoccupanti, a scelte distorte che trasformano le nostre so­cietà in terreni di battaglia, è necessaria una presa di coscienza da parte di tutti.
Nell’incontro leale, che si realizza con la propria autenticità religiosa, si constata quante cose abbiamo in comune e si per­corre una strada che stempera gli errori del passato.
Ma un incontro mimetizzato è inficiato dall’ipocrisia, dal nascondimento.
Ce­lando i segni del cammino spirituale del­l’umanità ci si adagia ad una visione piat­ta della persona, della sua storia, delle sue idealità, si aggiunge un piccolo tassello a una concezione nichilista che mortifica e umilia.
A questa concezione si può ri­spondere con un atto di fiducia nell’essere umano, e nella sua capacità di vivere con gli altri nel rispetto delle rispettive religioni e identità culturali.
Carlo Cardia

lunedì 5 novembre 2007

Addio don Oreste


Un ricordo personale di circa diciotto anni fa. Partecipo al Convegno Nazionale delle Caritas Diocesane a Collevalenza in rappresentanza della mia diocesi. Scelgo di alloggiare in camera doppia, ma non ho un compagno di stanza. L'organizzazione quando mi dà la camera mi dice che la condividerò nientepopodimeno che con don Oreste che era chiamato a fare una testimonianza.
Attendo con impazienza la giornata del suo intervento e alla fine di esso scopro quello che agli organizzatori era sembrata la cosa più ovvia. Non dormirà a Collevalenza e rientrerà subito al lavoro... nella sua Rimini. Che delusione per me. Che grande uomo lui!!!

LA PROFEZIA DI DON ORESTE UN MENDICANTE D’ANIME SUI VIALI DELLA RIVIERA ROMAGNOLA

MARINA CORRADI Avvenire, 3.11.2007

« Se chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero di cellula­re di don Oreste». La scritta in ca­ratteri grossi, neri, dietro la scri­vania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’al­ba livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio – sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazio­ne seppellisse il principio di una sparuta speranza.Il vecchio prete morto nel suo let­to, nel sonno, tra la notte dei San­ti e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una sta­tura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si a­veva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chi­sciotte. Le ragazze dei viali guar­davano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che pro­metteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bol­ge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rume­ne o nigeriane diciottenni. Cre­devi che quelle ragazze sarebbe­ro scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vive­re così, guarda che puoi ricomin­ciare tutto da capo. E sotto il truc­co pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, do­po tanto tempo, nel sentirsi guar­dare come qualcosa di prezioso. Cinquecento donne hanno cam­biato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’ani­me sui viali della riviera roma­gnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, al­lungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai. Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora inte­riore. Baricentro costante e si­lenzioso. Era strano vedere un sa­cerdote in tonaca nera fra la fol­la vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli ac­canto – a 80 anni, alle due di not­te don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a di­sagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio con­templazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incon­tro ».È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a ri­conoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa at­tendono e non trovano, nell’eb­brezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchie­re. In mezzo agli uomini, tra di lo­ro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – ep­pure sempre con quella mano a­perta e tesa. Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protetto­ri. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole con­sunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.