C'è un articolo dei Avvenire di ieri che mi ha reso estremamnete triste.
E' tremendo pensare che le nostre radici possano essere accantonate per non "infastidire qualcuno".
Quel qualcuno penso anche che non penserebbe mai di chiedere ciò che qualcun'altro impone in nome della sensibilità altrui.
Tra l'altro musulmani ed altre religioni non usano altri calendari?
Leggete e valutate voi
SPERPERO DELLA NOSTRA IDENTITÀ
CHINA FATALE.
NESSUNO CI CHIEDE DI ABBRACCIARLA
da Avvenire del 9 novembre 2007
Dagli Stati Uniti viene la proposta di togliere dalla datazione l’acronimo d.C. (perché il riferimento a Cristo offenderebbe chi è musulmano, o di altra religione) e sostituirlo con e.c. (era comune).
In Gran Bretagna una scuola avrebbe indotto gli alunni e le loro famiglie a praticare per un giorno costumi musulmani: uso del chador per le ragazze, separazione tra ragazze e ragazzi, tra uomini e donne siano genitori o insegnanti. Però, alunni, docenti e genitori, erano per il 90 per cento di religione cristiana.
Questi gli ultimi segni di una china fatale che l’Occidente sta vivendo in tema di multiculturalità.
I precedenti più prossimi sono noti. In Italia, un alto tribunale ha perdonato due genitori per le percosse inflitte alla figliola Fatima perché la tradizione da cui provengono le giustificherebbe.
In Germania, un giudice ha diminuito drasticamente la pena a chi aveva commesso violenza carnale perché la sua tradizione sarda legittimerebbe in qualche modo la prevaricazione sulla donna. A differenza che in passato, né a Roma né a Berlino si è trovato un giudice vero, cioè equo e umano.Io credo si debba riflettere su un elemento importante.
Siamo di fronte ad una china fatale che nessuno ci chiede di percorrere, a una condanna che ci infliggiamo da soli, come presi da una bramosia di anonimato che oscura tante cose, persi in un orizzonte di autopunizione nel quale ci rinchiudiamo.
La nostra storia, le grandi svolte spirituali che ci hanno fatti come siamo, che hanno cambiato il mondo e il genere umano, tutto ciò può essere nascosto, messo nell’angolo, per ignavia o per paure inesistenti.
In questo modo, facciamo tutto il contrario di ciò che la multiculturalità potrebbe essere, cioè molteplicità e ricchezza, incontro di identità e confronto di valori.
Il messaggio di Gesù è grande e decisivo per i cristiani, ma è rispettato, ascoltato in tutto il mondo, come abbiamo potuto vedere negli incontri che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno avuto e hanno con i leader religiosi del pianeta.
A loro volta, i cristiani rispettano i valori e le esperienze spirituali di altre religioni come un patrimonio che può portar frutti e benefici.
Dall’incontro tra le religioni può iniziare un cammino di cui non conosciamo le tappe e gli esiti, ma che interessa l’umanità intera.
Ma nascondere, svilire, la storia e il ruolo di una religione o dell’altra, incontrarsi facendo finta che non abbiamo radici, tutto ciò non porta al dialogo interreligioso, porta a dialoghi finti, pone i presupposti di nuovi conflitti.Concepire il dialogo chiedendo a ragazze non musulmane di indossare il chador è avvilente, toglie autenticità al rapporto interpersonale, impedisce una vera conoscenza reciproca.
Così come legittimare pratiche violente con le tradizioni culturali vuol dire tornare indietro di secoli, fare del diritto uno strumento di legittimazione del più forte, anziché di affinamento del costume sociale.
La multiculturalità è stravolta, finisce con l’offendere quei principi religiosi che gli uomini avvertono e sentono nella propria coscienza.
Di fronte a tanti fatti preoccupanti, a scelte distorte che trasformano le nostre società in terreni di battaglia, è necessaria una presa di coscienza da parte di tutti.
Nell’incontro leale, che si realizza con la propria autenticità religiosa, si constata quante cose abbiamo in comune e si percorre una strada che stempera gli errori del passato.
Ma un incontro mimetizzato è inficiato dall’ipocrisia, dal nascondimento.
Celando i segni del cammino spirituale dell’umanità ci si adagia ad una visione piatta della persona, della sua storia, delle sue idealità, si aggiunge un piccolo tassello a una concezione nichilista che mortifica e umilia.
A questa concezione si può rispondere con un atto di fiducia nell’essere umano, e nella sua capacità di vivere con gli altri nel rispetto delle rispettive religioni e identità culturali.
Carlo Cardia
sabato 10 novembre 2007
lunedì 5 novembre 2007
Addio don Oreste
Un ricordo personale di circa diciotto anni fa. Partecipo al Convegno Nazionale delle Caritas Diocesane a Collevalenza in rappresentanza della mia diocesi. Scelgo di alloggiare in camera doppia, ma non ho un compagno di stanza. L'organizzazione quando mi dà la camera mi dice che la condividerò nientepopodimeno che con don Oreste che era chiamato a fare una testimonianza.
Attendo con impazienza la giornata del suo intervento e alla fine di esso scopro quello che agli organizzatori era sembrata la cosa più ovvia. Non dormirà a Collevalenza e rientrerà subito al lavoro... nella sua Rimini. Che delusione per me. Che grande uomo lui!!!
LA PROFEZIA DI DON ORESTE UN MENDICANTE D’ANIME SUI VIALI DELLA RIVIERA ROMAGNOLA
MARINA CORRADI Avvenire, 3.11.2007
« Se chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero di cellulare di don Oreste». La scritta in caratteri grossi, neri, dietro la scrivania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’alba livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio – sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazione seppellisse il principio di una sparuta speranza.Il vecchio prete morto nel suo letto, nel sonno, tra la notte dei Santi e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una statura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si aveva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chisciotte. Le ragazze dei viali guardavano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che prometteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bolge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rumene o nigeriane diciottenni. Credevi che quelle ragazze sarebbero scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vivere così, guarda che puoi ricominciare tutto da capo. E sotto il trucco pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, dopo tanto tempo, nel sentirsi guardare come qualcosa di prezioso. Cinquecento donne hanno cambiato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’anime sui viali della riviera romagnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, allungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai. Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora interiore. Baricentro costante e silenzioso. Era strano vedere un sacerdote in tonaca nera fra la folla vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli accanto – a 80 anni, alle due di notte don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a disagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio contemplazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incontro ».È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a riconoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa attendono e non trovano, nell’ebbrezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchiere. In mezzo agli uomini, tra di loro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – eppure sempre con quella mano aperta e tesa. Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protettori. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole consunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.
Attendo con impazienza la giornata del suo intervento e alla fine di esso scopro quello che agli organizzatori era sembrata la cosa più ovvia. Non dormirà a Collevalenza e rientrerà subito al lavoro... nella sua Rimini. Che delusione per me. Che grande uomo lui!!!
LA PROFEZIA DI DON ORESTE UN MENDICANTE D’ANIME SUI VIALI DELLA RIVIERA ROMAGNOLA
MARINA CORRADI Avvenire, 3.11.2007
« Se chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero di cellulare di don Oreste». La scritta in caratteri grossi, neri, dietro la scrivania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’alba livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio – sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazione seppellisse il principio di una sparuta speranza.Il vecchio prete morto nel suo letto, nel sonno, tra la notte dei Santi e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una statura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si aveva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chisciotte. Le ragazze dei viali guardavano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che prometteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bolge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rumene o nigeriane diciottenni. Credevi che quelle ragazze sarebbero scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vivere così, guarda che puoi ricominciare tutto da capo. E sotto il trucco pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, dopo tanto tempo, nel sentirsi guardare come qualcosa di prezioso. Cinquecento donne hanno cambiato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’anime sui viali della riviera romagnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, allungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai. Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora interiore. Baricentro costante e silenzioso. Era strano vedere un sacerdote in tonaca nera fra la folla vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli accanto – a 80 anni, alle due di notte don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a disagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio contemplazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incontro ».È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a riconoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa attendono e non trovano, nell’ebbrezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchiere. In mezzo agli uomini, tra di loro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – eppure sempre con quella mano aperta e tesa. Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protettori. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole consunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.
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